Le cause scriminanti sono quelle cause previste dal codice penale che rendono non penale, e quindi non perseguibile, un’azione apparentemente criminosa trasformandola in un’azione di autodifesa o comunque giustificabile
Alessandro Scassellati (AS): Siamo ad un nuovo appuntamento della rubrica “La pillola dell’avvocato”, con l’avvocato di Casa dei Diritti Sociali Marco Galdieri, e oggi proviamo ad affrontare un tema apparentemente complesso, le cause scriminanti, quel complesso di norme giuridiche del diritto penale che rendono un’azione non un reato penale perché introducono una serie di eccezioni che trasformano quest’azione, che normalmente verrebbe considerata un reato, in un’azione di autodifesa o comunque giustificabile e quindi non non reato.
Marco Galdieri (MC): Proviamo in linea generale e in maniera sintetica a descrivere quelle che effettivamente hai introdotto come le cause scriminanti. Le analizziamo con qualche richiamo nel concreto in modo da rendere più chiaro il discorso. In generale, trattasi di un complesso di norme che vengono individuate nella parte generale, tra gli articoli 50 e 54, del codice penale. Poi, ci sono leggi speciali che comunque prendono le mosse da questo nucleo di norme. Queste norme vanno ad elidere lo stesso concetto di antigiuridicità della condotta. Si è discusso in passato e ormai sembrerebbe abbastanza pacifico, se si trattasse di cause di non punibilità o appunto scriminanti. La differenza, per quanto tecnica, è importante perché una causa di non punibilità è una causa che interviene successivamente al compimento di un reato, quindi il reato è commesso, però non è punibile perché sono sopravvenuti degli elementi che non consentono di punire quella che di per sé è considerata una condotta criminosa a tutti gli effetti. In questo caso, invece, parliamo di casi in cui viene meno l’antigiuridicità, nel senso che la condotta è criminosa, ma non punibile. La condotta non è proprio criminosa perché ci sono degli aspetti che andiamo a vedere. Iniziamo con il consenso dell’avente diritto, il primo caso previsto dall’articolo 50, per cui ad esclusione di determinati casi su cui c’è un dibattito abbastanza forte, posso commettere quella che fondamentalmente è ritenuta di un’azione che non potrei commettere nei confronti di un’altra persona, se questa persona mi ha fornito il proprio consenso. Pensiamo, ad esempio, al caso dei tatuaggi, insomma di situazioni in cui siamo al limite perché ci sono dei trattamenti personali sul corpo della persona che vengono giustificati dal fatto che sono io il titolare avente diritto che ho prestato il consenso a chi mi sta causando in quel momento un dolore finalizzato però magari appunto a un trattamento. Questo è l’esempio più classico che si fa. Chiaramente, c’è un limite. Ad esempio, l’omicidio con il consenso della persona che si sta uccidendo. In questo caso, un consenso che non sarebbe valido. Detto in altri termini potremmo parlare di eutanasia con tutto il dibattito che ci sta dietro. Quindi, non ogni tipo di consenso è ritenuto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento e tale da giustificare una condotta criminosa rendendola lecita.
AS: Questo consenso deve essere esplicito, scritto?
MG: Deve essere esplicito e può essere anche fornito direttamente dalla persona verbalmente se in grado di farlo, altrimenti diventa probatorio. Deve essere esplicito, non può essere presupposto. Non posso pensare che le persone abbiano autorizzato. Facciamo un esempio tra i più semplici come la violazione di domicilio nel caso in cui non ti consento di entrare. Se invece ti consento di entrare c’è un’ospitalità. I casi dei tatuaggi e di alcuni trattamenti che sono vicini ai trattamenti sanitari rendono meglio l’idea di quello che si deve fare. Ci sono determinati casi in cui la titolarità del bene giuridico viene tutelata dall’ordinamento per cui è consentito che venga in qualche modo attraversata quella sfera che altrimenti non sarebbe attraversata se non ci fosse il mio consenso. Il secondo caso comprende due tipi di condotte diverse che sono l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere. Tra l’esercizio del diritto abbiamo il diritto di cronaca, il diritto di critica, di cui abbiamo parlato la scorsa volta. Ciò che altrimenti potrebbe essere ritenuto come diffamatorio e rientrare ad esempio nell’alveo dei reati non lo è perché sto esercitando correttamente, con i paletti che già ci siamo detti, un diritto di critica. Questo perché c’è un bilanciamento che è di tipo anche costituzionale fra norme che consentono di ritenere che l’esercizio di un diritto può avere una validità tale da andare a sovrastare quella che era una norma penale incriminatrice. Per quanto riguarda l’adempimento di un dovere, c’è il caso di un vigile del fuoco che entra dentro un’abitazione anche contro il consenso perché sta spegnendo un incendio nel palazzo di fronte. Di solito questi tipi di condotte riguardano i pubblici ufficiali o gli agenti di polizia o tutte quelle persone che si ritrovano a violare determinate norme perché stanno adempiendo al proprio dovere. In questi casi, parliamo di linee di confine che alcune volte non sono sempre semplici da distinguere. Possiamo anche aggiungere che in tanti casi le norme speciali ci aiutano a delineare questa linea di confine. In altri casi non ci sono per niente, quindi bisogna navigare a vista o aiutarsi tramite la giurisprudenza delle pronunce passate su ciò che può essere inteso come adempimento di un dovere e quali sono le linee di confine che giustificano la condotta posta in essere oppure non la giustificano. Un altro classico esempio di cui spesso si dibatte è quello della legittima difesa. L’elemento cardine è che io sto difendendo un bene e mi sto difendendo da un attacco, da un’aggressione e reagisco a questa aggressione con una forza pari e contraria, in modo che riesco a salvaguardare il mio bene, la mia vita, ad esempio. Spesso si parla di eccesso colposo quando viene superata quella linea di confine, ma non con una volontà di nuocere. Ci sono tantissimi casi. Si è discusso e ci sono stati interventi normativi su tante questioni. La difesa quando ci sono risvolti all’interno dei negozi, per cui si discute se sia giusto o meno rispondere con il fuoco a chi magari non è armato, ma anche se armato, mentre sta fuggendo. Quindi, ci sono una serie di casistiche in cui bisogna effettivamente capire se la legittima difesa è proporzionata. Il tema più complicato in questo tipo di scriminante è sempre capire se la proporzionalità è venuta in essere o meno, quindi se la mia difesa è stata in qualche modo dettata da quel momento storico ben preciso oppure se ha travalicato limiti. Questo è facile che avvenga, perché ci può essere il sentimento di rabbia, anche là dove sono fuori pericolo, per cui si vanno a compiere degli atti che travalicano la difesa. Solitamente, quando parliamo di furti dentro casa, là dove il ladro sta fuggendo, parliamo di un bene patrimoniale a fronte di un bene vita. Mi hanno sottratto degli averi e dall’altra parte invece reagisco andando a ledere l’incolumità dell’altra persona, di fatto travalicando questo limite. Dall’altra parte, c’è chi ritiene che invece bisogna poter reagire con una forza pari e contraria anche maggiore perché ritiene che ci sia un sentimento all’interno di queste vicende, per cui una persona non soltanto è stata derubata, ma è stata violata nella sua attività piuttosto che abitazione con una serie di conseguenze anche psicologiche e quindi possa essere un deterrente “autorizzare” a volte una difesa maggiore in queste situazioni.
Ci sono interventi normativi specifici che vanno a limare, figli del sentimento del governo di turno, per cui adesso ci atteniamo soltanto alle norme generali senza entrare nello specifico. Correlata a questo è la questione dell’uso legittimo delle armi, in questo caso però fondamentalmente legato ai pubblici ufficiali. Parliamo di organi di polizia che ad esempio di fronte a determinate situazioni sono obbligati a utilizzare le armi e anche chi sta assistendo queste persone può utilizzare le armi, comunque sempre in un contesto che non è quello del far west, e ci mancherebbe altro, ma di pericolo tale che può essere riagganciato a quello della legittima difesa, ma non parliamo del privato cittadino. Anche in questo caso diciamo si va a scriminare, nella possibilità che possa parlarsi di un reato. Infine, l’ultimo è lo stato di necessità. Non è propriamente assimilabile alla legittima difesa, ma si differenzia perché di fatto abbiamo un bilanciamento fra due beni giuridicamente tutelati in cui non possono sopravvivere entrambi e quindi bisogna in qualche modo sacrificare uno dei due. L’esempio più classico, da manuale, sono i due scalatori che stanno scalando una montagna e a un certo punto si rompe una qualche protezione, per cui uno dei due sta precipitando attaccato ancora al primo. Il primo per evitare di precipitare anche lui è costretto a tagliare la corda e quindi a sacrificare una vita, perché altrimenti se ne sacrificherebbero due, perché il primo non ha altro modo di poterlo aiutare. Quindi, la difesa del proprio bene vita impone in quel caso il sacrificio di un altro bene vita. Questa è una delle possibili casistiche. Stiamo ragionando su schemi abbastanza ampi da manuale.
AS: Rispetto a chi per esempio ha fame e non ha da mangiare e non ha un reddito, andare a fare un furto in un supermercato è un discorso di stato di necessità oppure diventa un reato penale?
MG: Il furto è un reato previsto e punito. Si è discusso in molti casi nello specifico della situazione. Le accuse vengono anche ridimensionate per la tenuità del fatto, cioè se uno va a rubare un pasto perché non ha nessun tipo di assistenza alternativa possibile in quel momento, per cui non c’è un centro che possa in qualche modo supplire a questa mancanza. Bisogna entrare nel merito delle questioni. Ritengo assolutamente sì, nel senso dello stato di necessità, che rispetto alla propria vita sia quella di mangiare rispetto a un bene patrimoniale che sia quello di un pasto. Bisogna andare a vedere all’interno del furto come questo viene attuato, se con destrezza, se con l’ausilio di armi, se si limita ad un pasto oppure se si vanno a prelevare dei soldi o dei beni che vanno oltre la sussistenza. La realtà è molto più variegata e complessa. In linea generale, si è parlato anche sull’occupazione degli immobili dello stato di necessità rispetto al fatto di non poter vivere sulla strada o non avere altre alternative. Sulla soglia delle difficoltà di determinate situazioni si discute in continuazione sulle motivazioni in gioco che possano rientrare o
meno. Bisogna ogni volta valutare in concreto. Queste sono appunto norme generali che poi di fatto con l’ausilio di una giurisprudenza che può cambiare come cambiano i casi. Quindi, teoricamente direi di sì, non può essere criminalizzato chi si trova in uno stato di necessità, però qui lo dico e qui lo nego, perché poi nel caso concreto bisogna entrare nella complessità della vicenda per capire se non ci sono altre alternative, in che cosa è consistito il furto, in che modo è stato attuato, se mediante violenza sulle persone, eccetera, eccetera. Tutti elementi che invece potrebbero dare sostegno al fatto che non si tratta semplicemente di uno stato di necessità.