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Internet e l’economia delle piattaforme digitali – Prima parte

Di Alessandro Scassellati

Internet e le piattaforme che rende possibili danno vita ad una economia on-demand o app economy estranea al lavoro salariato standard, che crea la categoria dei lavoratori iper-flessibili degli on-demand workers (self-contractors, lavoratori autonomi con bassi salari a cottimo e del tutto privi di tutele assicurative).

Questa “uberizzazione” del lavoro è una forma di neo-taylorismo basato su bassi salari e sull’intensificazione della precarietà, del controllo e della sorveglianza dei lavoratori che viene imposta attraverso il mondo digitale, consentendo ad un gruppo molto ristretto di persone e imprese, che producono poco o nulla direttamente e con un numero ridottissimo di dipendenti diretti effettivi rispetto al loro fatturato (un gigante come Facebook aveva solo 58 mila dipendenti diretti nel dicembre 2020), di:

  • colonizzare ai fini dell’accumulazione di capitale sia spazi immateriali virtuali, come le reti informatiche all’interno delle quali monopolizzano le attività di archiviazione, elaborazione e riutilizzazione dei dati a fini commerciali, sia spazi reali materiali (ora che così tanti dispositivi hanno il GPS integrato) per erogare servizi on-demand – come, ad esempio, le strade dove Uber svolge la propria attività di intermediazione tra clienti e guidatori, o gli appartamenti, il cui affitto temporaneo a turisti da parte di Airbnb (che dal 2008 è cresciuta dal nulla a 30 miliardi di dollari di fatturato ed è stata quotata alla Borsa valori del Nasdaq ad un prezzo che ha valutato la società ad oltre 47 miliardi di dollari a fine 2020) contribuisce ad elevare i costo delle case e, quindi, ad aggravare la crisi alloggiativa in tante grandi città (Londra, Parigi e New York sono i più grandi mercati cittadini di Airbnb, con circa 65-80 mila case in elenco per ciascuna), costringendo i residenti a spostarsi altrove, mentre le trasforma in dei dormitori ad uso e consumo dell’industria delle vacanze (facendo anche una spietata concorrenza agli alberghi). Il sito di Airbnb elenca oltre 6 milioni di camere, appartamenti e case in oltre 81.000 città in tutto il mondo (quasi mezzo milione solo in Italia), in media, 2 milioni di persone dormono in una proprietà gestita da Airbnb ogni notte. Nel 2019 ha ospitato in Italia 11,5 milioni di persone (il 78% straniere) per una cifra pari a 2 miliardi di euro, il doppio degli incassi delle prime 10 catene alberghiere;
  • ricavare profitti enormi attraverso la pubblicità, la vendita di servizi (app, cloud computing, etc.), analisi e soprattutto dati e informazioni personali, commerciali, industriali e finanziarie sui miliardi di utenti – la vera merce venduta in barba ai diritti della privacy (“non sei un cliente, sei il prodotto”) –, oltre allo sfruttamento pressoché a costo zero, grazie alla clausola del Safe Harborcontenuta nel Digital Millennium Copyright Act del 1998, della creatività e dei contenuti prodotti da miliardi di persone e dall’informazione professionale, senza doverne condividere costi e responsabilità.

Solo di recente, l’Unione Europea ha deciso di provare a difendere il diritto d’autore (copyright online) per far ottenere un equo compenso ai produttori di contenuti per il loro l’utilizzo sul web. I motori di ricerca e gli aggregatori di notizie come Google News e le piattaforme come Facebook o YouTube dovranno trovare accordi economici (compiendo “i massimi sforzi”) con grandi editori, produttori cinematografici, associazioni di artisti, giornalisti, scrittori e altri autori per l’utilizzo di notizie e audiovisivi soggetti a copyright.Commissione, Consiglio e Parlamento hanno raggiunto faticosamente un accordo su una direttiva che aveva due articoli controversi, l’undicesimo e il tredicesimo (poi diventato il 17esimo).

Il primo ha previsto il principio di creare un diritto attinentenel diritto d’autore per gli editori di quotidiani. Consente ai media di essere pagati durante il riutilizzo online della loro produzione (per un periodo di 2 anni) da parte di aggregatori di informazioni come Google News o social network come Facebook. La semplice condivisione tra hyperlinker e articoli, così come parole isolateper descriverli, saranno esenti da restrizioni sul copyright. Così come gli estratti molto brevi, che appaiono sui motori di ricerca, aggregatori di informazioni o social network. L’altro articolo ha previsto che i gestori di un sito non sono responsabili dei comportamenti degli internauti, ma sono tenuti a segnalare eventuali violazioni del diritto d’autore che devono però essere accertate da personale specializzato. Il timore è che possano utilizzare dei filtri sul caricamento dei contenuti che possano diventare un grosso pericolo per la libertà di espressione in Europa. Sono esentate dall’obbligo di applicazione di queste norme le imprese che hanno un fatturato inferiore a 10 milioni di euro e hanno un pubblico di meno di 5 milioni di visitatori al mese.

Successivamente, nel febbraio 2021, il parlamento australiano ha approvato una nuova legge progettata per costringere Google e Facebook a pagare le società di media per i contenuti utilizzati sulle loro piattaforme. Una riforma che ha portato ad un brutale braccio di ferro tra governo australiano e Facebook, ma che potrebbe essere replicata in altri Paesi. L’Australia è il primo Paese in cui un arbitro governativo decide il prezzo che i giganti della tecnologia devono pagare se i negoziati commerciali con le testate di stampa locali falliscono. La legislazione, tuttavia, è stata annacquata all’ultimo minuto dopo che uno stallo tra il governo e Facebook è culminato nel blocco di tutte le notizie per gli utenti australiani da parte della società di social media. Successive modifiche al disegno di legge hanno incluso la concessione al governo della facoltà di “liberare” Facebook o Google dal processo di arbitrato se dimostrano di aver dato un “contributo significativo” all’industria dell’informazione australiana. Alcuni legislatori ed editori hanno avvertito che potrebbe ingiustamente lasciare fuori le piccole società di media, ma sia il governo sia Facebook hanno affermato che la revisione della legislazione è positiva.

Nell’ottobre 2020, il Dipartimento di Giustizia – che negli USA ha funzioni di autorità antitrust – ha contestato a Google di essere un monopolio illegale che soffoca la concorrenza, la libertà di scelta agli utilizzatori di Internet e l’innovazione. Secondo il Dipartimento, Google utilizza una parte del proprio enorme fatturato pubblicitario per erigere insuperabili barriere a chiunque provi a farle concorrenza, ad esempio, stringendo accordi con i produttori di smartphone, grazie ai quali Google viene installato come unico motore di ricerca predefinito (per questo privilegio Google paga 10 miliardi di dollari all’anno ad Apple). Se vittoriosa, l’azione antimonopolistica del Dipartimento potrebbe costringere Google ad attuare cambiamenti strutturali, nei suoi comportamenti e modelli organizzativi.

 

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