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Internet e l’economia delle piattaforme digitali – Seconda parte

di Alessandro Scassellati

Amazon è in grado di consegnare quasi tutto alla porta di un suo cliente entro due giorni – o forse anche due ore, se vive in una delle città più ricche d’America o d’Europa – ma non paga molti dei suoi lavoratori con un salario che consente la sussistenza. Uber viene a prendere i suoi clienti in pochi minuti e li porta ovunque per la frazione del costo di un taxi, ma i suoi autisti sono trattati come “usa e getta”. Facebook e Google hanno reso il mondo più interconnesso e informato, ma a scapito della privacy degli utenti (e talvolta della verità).

Nel complesso si è formata una concentrazione di potere oligopolistico e monopolistico degli algoritmi e dei dati (alimentata con servizi gratuiti e una personalizzazione dei prezzi) che valgono più del servizio fornito e che ha ucciso il sogno dell’inventore del World Wide Web, Tim Berners-Lee (che la Rete venisse usata perlopiù per servire il genere umano), del movimento “open source” e “open access” (che promuoveva la gratuità dei programmi informatici e il libero e illimitato accesso al flusso di informazioni e alla proprietà intellettuale) prefigurato da figure come Lawrence Lessig (2008), Yochai Benkler (2004, 2007), Rachel Botsman e Roo Rogers (2010) o Aaron Swartz, quest’ultimo estensore del Guerilla Open Access Manifesto (2008) e morto suicida l’11 gennaio 2013. Una concentrazione di potere che mercifica la sharing economy, ostacola i controlli pubblici, sorveglia costantemente le vite degli utenti e, cercando di modellarle, dirigerle e controllarle, le trasforma in dati e in profitti, dando vita ad un “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff, 2018). Una forza che è profondamente antidemocratica e sfruttatrice, ma che per ora rimane poco compresa. Anche il co-fondatore di Facebook, Chris Hughes, pensa che il social network dovrebbe essere smembrato e che il potere di Mark Zuckerberg sia “senza precedenti e non americano” (unamerican, ossia contrario ai valori americani).

Una concentrazione di potere che ricorda quella dei tempi dei “robber barons” della cosiddetta Gilded Age (EtàDorata) di oltre un secolo fa (tra il 1895 e il 1905), di magnati della finanza, acciaio, carbone, petrolio e ferrovie come J.P. Morgan, Cornelius e William H. Vanderbilt, Andrew Carnegie, Edward Harriman, Andrew Mellon, Henry Clay Frick o John D. Rockefeller, che con la Standard Oil Company (l’attuale Exxon/Mobil) allora controllava circa il 90% della raffinazione del petrolio americano. Monopoli che vennero combattuti dal movimento populista, dal People’s Party e da un gruppo di giornalisti investigativi (i cosiddetti muckrakers), come Ida Tarbell e Upton Sinclair, ma anche da un grande sociologo come Thorstein Veblen (The theory of the leisure class del 1899 e The theory of business enterprisedel 1904) durante quella che gli americani chiamano “the Progressive Era”, per essere poi in parte smembrati negli anni 1910 dalla Corte Suprema durante le amministrazioni di Theodore Roosevelt e di William Howard Taft. Il forte movimento politico in favore di una maggiore equità portò anche all’introduzione di un’imposta federale sui redditi nel 1913 e a una tassa sulle successioni nel 1916.

Negli USA, Google/Alphabet di Larry Page e Sergey Brin controlla l’88% del mercato dei motori di ricerca (search advertising), Facebook (con le controllate WhatsApp, Instagram e Messenger) di Mark Zuckerberg ha il 77% del traffico delle reti sociali, mentre Amazon di Jeff Bezos (con il 16,9% del capitale), oltre al 50% del mercato delle vendite online, ha il 74% di quello degli ebook. Da sole, Amazon, Google, Facebook hanno drenato quasi tutta la crescita del fatturato nella pubblicità digitale in America nel 2018 e raccolgono oltre un quarto di tutta la spesa mondiale in pubblicità. Il mercato pubblicitario online vale oltre 300 miliardi di dollari e lo controlla chi conosce le preferenze di chi naviga su Internet.

Facebook e le sue controllate vogliono anche battere moneta: la Libra. Un progetto lanciato nel 2019 per una criptovaluta agganciata a valute reali (dollaro, euro, sterlina, yen, etc.) che potrebbe essere usata per fare pagamenti o scambiare denaro attraverso le app, bypassando il sistema bancario tradizionale che ha commissioni molto alte, soprattutto a livello internazionale. Le sue operazioni saranno supervisionate da una nuova organizzazione con sede a Ginevra, aperta a qualsiasi impresa che abbia un valore di almeno 1 miliardo di dollari e investirà un minimo di 10 milioni. Inizialmente (giugno 2019), erano 30 i partecipanti, che andavano da Uber, Lyft e Spotify a Vodafone, Mastercard, PayPal e Visa – e per assicurare scettici riguardo alle sue presunte intenzioni “hands-off“, Facebook ha insistito che il proprio potere di voto sarà limitato all’1%. La creazione di una valuta privata – non emanazione di alcuna banca centrale e in mancanza di un quadro normativo specifico – può essere un’arma formidabile per delinquenti dediti al riciclaggio di denaro ed evasori fiscali, oltre a consentire a Facebook di accedere ad un’enorme quantità di dati finanziari. Libra rappresenterebbe un ulteriore passo verso la delega di quelle che sono importanti funzioni statali ad aziende tecnologiche private, per cui gli Stati perderebbero la capacità di regolare la valuta utilizzata dai loro cittadini. Inoltre, le autorità monetarie e di regolazione dei mercati finanziari nazionali ed internazionali ritengono che sebbene l’entrata di aziende come Facebook, eBay, Amazon, WeChat e Alibaba nel settore de servizi finanziari potrebbe accelerare le transazioni e tagliare i costi, specialmente nei Paesi emergenti e poveri, potrebbe anche minare la stabilità di un sistema bancario appena recuperato dallo schianto di 2008. Al G-7 dei ministri finanziari di Chantilly è stato deciso che le monete digitali come Libra dovranno essere strettamente regolamentate e supervisionate prima di poter partire, in modo da assicurare che non destabilizzino il sistema finanziario mondiale e non compromettano la protezione dei consumatori, la privacy, la tassazione o la sicurezza informatica. Per questo quasi tutte le società di pagamento che inizialmente avevano accettato di unirsi alla criptovaluta Libra di Facebook – PayPal, Visa, Mastercard, Stripe, Marcado Pago, eBay – hanno fatto marcia indietro nel giro di pochi mesi, mettendo a rischio l’iniziativa (solo 21 degli originari 30 partner la sostengono).

Facebook, Amazon, Apple, Netfliix e Google/Alphabet (FAANG), insieme a Microsoft e alle cinesi Alibaba, Tencent, Baxt e WeChat, sono gli assoluti dominatori dei mercati finanziari e borsistici in termini di capitalizzazioni, dando vita ad una vera e propria “bolla” tecnologica. In dieci anni le global corporations del capitalismo digitale hanno scalzato Exxon, Shell Oil, General Electric (fuori anche dal Dow Jones) e Citigroup. Google/Alphabet, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft sono le cinque compagnie quotate più importanti del mondo. I Big 5 digitali americani sono arrivati a capitalizzare in Borsa oltre 6 mila miliardi di dollari (con una media di 1,2 trilioni), ossia quasi un terzo del Nasdaq e oltre il 70% in più del PIL dell’Africa. Chi aveva investito mille euro in Apple nel 1998 e non aveva venduto a giugno 2017 se ne ritrovava (al netto dei dividendi incassati) oltre 320 mila. E in Borsa il titolo Apple ha continuato a salire superando i mille miliardi di capitalizzazione (2 agosto 2018) e poi i 2 mila (19 agosto 2020), divenendo la società più capitalizzata della storia (nel 2011 valeva 350 miliardi), seguita da vicino da Amazon, Microsoft e Google/Alphabet. Nel 2017 Apple ha avuto vendite per 229 miliardi e utili per 48,4 miliardi. I profitti delle 5 imprese digitali americane sono stati in crescita per anni. Nel 2019, Alphabet, la società madre di Google, ha generato 135,8 miliardi di dollari di introiti, Facebook quasi 56 miliardi. Le cinque società tecnologiche – Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Alphabet – hanno registrato circa la metà dei guadagni ottenuti dall’indice azionario Standard & Poor’s 500 nella prima metà del 2019. La ricchezza combinata di Zuckerberg (62,3 miliardi di dollari), Bezos (131 miliardi), Brin (49,8 miliardi) e Page (50,8 miliardi) è più grande della ricchezza combinata della metà più povera della popolazione americana nel 2019.

Si tratta ormai di imprese globali che sono diventate dei “monopoli naturali” del capitalismo delle piattaforme digitali e, quindi, andrebbero o frazionate come avvenne con il monopolio telefonico AT&T nel 1982 (anche se oggi i diversi pezzi si sono riunificati, divenendo parte del duopolio che controlla la telefonia in America) o quanto meno regolamentate come delle public utilities che svolgono un servizio pubblico. Un tipo di intervento di regolamentazione che si scontra con:

  • la teoria e politica della concorrenza per ora egemone negli USA – la “dottrina Bork” e la “teoria dei prezzi” della University of Chicago Law School fondata da Aaron Director (cognato di Milton Friedman) e da Richard A. Posner – che, in ossequio alla fiducia nella razionalità ed efficienza dei mercati alimentati da attori alla ricerca di una massimizzazione dei profitti, considera come il solo criterio guida “la massimizzazione del benessere dei consumatori” (non anche dei produttori o del mercato nel suo insieme), generalmente interpretato e misurato dai tribunali e autorità antitrust a partire dagli effetti sui prezzi e sui risultati nel breve periodo. Si ritiene che prezzi bassi o bassissimi escludano di per sé qualsiasi potere di controllo sui mercati anche in presenza di condizioni strutturali di monopolio (tutto il resto – la preoccupazione per capitalisti e corporations che accumulano potere politico o fabbricano beni di qualità e varietà inferiore o spremono la forza lavoro e i fornitori o frenano l’innovazione – è solo una distrazione);
  • le loro spese di lobbying, qualcosa come 60 milioni di dollari l’anno, che li hanno resi per ora quasi intoccabili per la politica e le autorità di controllo americana.

Inoltre, la Federal Communications Commission (FCC) americana, controllata da Trump, ha deciso di cancellare le regolamentazioni (volute dalla FCC di Obama nel 2015) che regolano l’accesso a Internet noto come “neutralità della rete” e questo influenzerà il mondo digitale abitato da tutti. Fino a questa decisione (contro la quale molti Stati USA hanno fatto causa), ogni fornitore di servizi Internet a banda larga (l’elettricità del 21° secolo) era obbligato ad essere “neutrale”, ossia a trattare tutti i siti web allo stesso modo, così che un blog di quartiere fosse accessibile come quello di un importante sito aziendale. Grazie a questa decisione tale obbligo è decaduto e Internet cesserà di essere trattato alla stregua di un servizio pubblico. Ora, i possessori dell’infrastruttura (gli Internet service providers che sono di solito le telecom, gruppi come AT&T, Comcast, Charter e Verizon) possono offrire un accesso premium ad alcuni e negarlo agli altri. I grandi monopoli/oligopoli della rete saranno in grado di pagare i soldi extra per assicurarsi di rimanere nella corsia di sorpasso nel traffico dei dati, mentre il costo potrà spegnere le start up. Il prossimo sfidante di Netflix o Facebook potrebbe essere strangolato alla nascita da pedaggi proibitivi alla corsia veloce. Il potere online sarà sempre più concentrato nelle mani di pochi giganti.

 

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